Difficile definire una data esatta che possa corrispondere alla nascita di Villa Ada, ma è oramai quasi prassi comune fissare questo evento all’incirca nel 1750, quando lungo la Via Salaria, sul lato sinistro uscendo dalla città, sorgevano tre vigne, che avranno poi un ruolo fondamentale nella nostra storia: la Vigna del Monsignor Natale Saliceti, quella dell’avvocato Calzamiglia e quella del Signor Michele Capocaccia.
Queste vigne,
parte di quello che al tempo era noto come Agro Romano, un territorio assai
vasto e che si estendeva tutto intorno alla città di Roma, avevano ciascuna al
loro interno un cosiddetto “casino nobile” – oggi, con un minimo di
approssimazione, lo chiameremmo casale di campagna – un edificio predisposto al
soggiorno da parte dei proprietari degli appezzamenti di terreno, edifici che tra
l’altro oggi sono ancora presenti, anche se ovviamente con funzioni
completamente diverse.
Nello specifico, il
casino nobile di vigna Saliceti è Villa Elena, quello di vigna Calzamiglia è il
Casino Pallavicini e quello di vigna Capocaccia è la casa del guardiano, accanto
all’ingresso carrabile che porta all’ambasciata d’Egitto.
Le tre vigne furono
acquistate, tra il 1785 e il 1789, dal Principe Luigi Pallavicini, evento che di
fatto sancisce la nascita dell’embrione di quella che poi, con il procedere
degli anni, diventerà Villa Ada così come noi la conosciamo oggi.
Luigi Pallavicini
avviò da subito un imponente progetto di aggregazione e sistemazione dei
diversi terreni, incaricando dei lavori l’architetto francese Auguste
Chevalle de Saint Hubert, che già operava a Roma e dove si era trasferito
dopo aver vinto il “Prix de Rome”, con l’idea di creare un parco ispirato ai
criteri formali e geometrici in voga in quei tempi, tipici appunto dei
cosiddetti giardini all’italiana, con l’intento di trasformare quelli che in
origine erano vigneti in una sorta di villa estiva.
Tra i lavori
fatti, va sicuramente ricordato la costruzione di un edificio per il tempo
libero, che dai documenti disponibili e dalle mappe storiche è possibile
appunto datare intorno al finire del Settecento, edificio riportato nella
pianta del Catasto Gregoriano del 1816 e che poi prese il nome di Coffee-house
o Tempio di Flora (Dea romana e italica della fioritura dei cereali e delle
altre piante utili all'alimentazione, compresi vigneti e alberi da frutto,
conosciuta anche come Dea della primavera).
Il Tempio di Flora
Sempre
all’architetto francese va poi attribuita la costruzione dell’imponente ponte
in muratura, che si trova poco prima del Tempio di Flora e sul quale molti
passano, probabilmente senza avere consapevolezza della sua struttura ad archi,
visibile solo scendendo nella vegetazione sottostante.
Il ponte in muratura
All’Hubert fu poi
affiancato a Francesco Bettini, eclettico e autodidatta creatore di giardini,
che aveva già curato il giardino di Villa Doria, di proprietà del Cardinale
Giuseppe Maria Doria e situata poco fuori Porta Pinciana, giardini che avevano
colpito Luigi Pallavicini, tanto che appunto chiese a Bettini di occuparsi
anche dei lavori all’interno delle proprietà acquistate.
La collaborazione
con l’architetto francese, tuttavia, non ebbe però vita lunga, tanto che
l’Hubert fu licenziato, sembra per futili motivi, e la direzione passò
totalmente a Francesco Bettini, affiancato poi dall’architetto Carlo Puri De
Marchis. Sul rapporto tra il Bettini e l’Hubert è interessante riportare cosa
il primo disse al Cardinale Doria in una sua lettera, dove rimarca, con intento
evidentemente ironico e di non apprezzamento, che il francese aveva progettato
e costruito un “cafeaus il quale a da avere la figura di un tempio greco,
dal costo di oltre mille scudi, con attorno un anfiteatro da seicento scudi”,
a conferma che tra i due non è che ci fosse proprio un rapporto idilliaco.
Bettini cambiò
subito l’impostazione voluta dal francese, orientandosi su un approccio
all’inglese, che si ispirava all’eclettismo, abbandonando le forme geometriche
a favore dell'accostamento e dell'avvicendamento di elementi naturali e
artificiali, dei quali peraltro oggi si trovano alcune tracce – poche, per la
verità – nella parte compresa tra l’ampio viale che passa sul ponte di muratura
già menzionato e il confine della villa con Villa Elena, verso Via Panama, dove
sono rilevabili le tracce di alcuni dei sentieri dell’epoca.
Oltre alla
sistemazione del parco, comunque, si deve a Bettini anche la progettazione del
Belvedere, del quale purtroppo oggi non rimane molto, essendo del tutto sparita
la bella griglia con le piante rampicanti, al centro della quale c’era
l’apertura che consentiva l’affaccio sul bosco sottostante, rimanendo solo la
balaustra in ferro che proteggeva e sosteneva le piante e la parte sottostante,
che si può vedere bene solo dal viale che scende verso il bosco e, infine,
l’area circolare che rappresentava il perimetro del Belvedere.
Il Belvedere
Sempre al Bettini
– ma qui la certezza non è salda come per il Belvedere – si deve la
progettazione della piramide adiacente al Tempio di Flora, della quale oramai
restano solo poche pietre, che consentono comunque di intuirne la forma
originaria. Questa costruzione fu ispirata da altre opere simili ed è
interessante, in particolare, notare come questa fosse dotata di un percorso
sotterraneo, con una sorta di camera sepolcrale, quasi a ricordare le classiche
piramide egizie e che, ahimè, oggi è del tutto irrintracciabile.
La Piramide
Alla morte di
Luigi Pallavicini, la proprietà, nel 1835, fu venduta dagli eredi a Ludovico
Potenziani, che peraltro aveva sposato Angelica Saliceti, discendete dei
proprietari di una delle vigne già menzionate e sembra fu proprio lei a
spingere per l’acquisto della proprietà Pallavicini.
I Potenziani erano
una nobile famiglia di origine reatina, essenzialmente vocata alle attività
agricole, motivo per cui non risulta introdussero particolari cambiamenti alla
villa, così come l’aveva voluta Luigi Pallavicini, ma ne privilegiarono
l’aspetto prettamente agricolo-produttivo, anche se in quegli anni sono
realizzati vialetti e aiuole dal tracciato irregolare.
Interessante
notare che, nella cartografia storica disponibile – almeno in quella in mio
possesso – non si trova mai citata Villa Pallavicini, ma è invece ben presente
Villa Potenziani, come ad esempio nella pianta del suburbio romano del 1839 (“Carta
topografica del suburbano di Roma desunta dalle mappe del nuovo censimento e
trigonometricamente delineata nella proporzione di 1:15000 per ordine dell'e.mo
e r.mo principe sig. cardinale Gio. Francesco Falzacappa presidente del censo
nell'anno 1839”) che vedete qui di seguito.
Carta topografica del suburbano di Roma - 1839
Nel 1872, Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, acquistò la villa, dandole il nome di Villa Savoia e avviando un imponente attività di ult3eriori acquisizioni, fra tutte quello dell’attuale Monte Antenne, che portarono la superficie della villa praticamente a quella che conosciamo oggi, di circa 160 ettari.
Fondo delle Real Casa – Estratto dai documenti relativi agli acquisti fatti da Vittorio Emanuele II
A vittorio
Emanuele II si deve, tra le altre, la costruzione della Palazzina Reale, oggi proprietà
privata della Repubblica d’Egitto e sede della sua ambasciata, e la demolizioni
di molte casini nobili e di altri edifici presenti nelle proprietà acquistate,
edifici dei quali oggi rimangono, in alcuni casi, solo piccole tracce, ben
nascoste dalla vegetazione.
La Palazzina Reale in una foto presa dal libro “Villa Ada Savoia”, di Emma Marconcini
Da non dimenticare
poi la costruzione delle scuderie reali, con la realizzazione di due nuovi
edifici che si affiancarono a quello seicentesco preesistente, così che le
scuderie, nel loro complesso, prevedevano: il Casale dei Trenatori, edificio
preesistente e che prende il nome da essere alloggio degli addetti ai treni
delle carrozze reali; l’edificio intermedio, dalle fattezze più semplici e
alloggio del personale di servizio; le Scuderie di Agenzia, la costruzione più
elegante, che porta sulla facciata minore il simbolo dei Savoia, dove venivano
ospitati i cavalli e le carrozze reali.
Le scuderie reali
Sempre a Vittorio
Emanuele II si deve la costruzione della Torretta del Roccolo, edificio
centrale della tecnica del roccolo, una pratica di uccellagione (cattura di
uccelli vivi da usare poi come richiamo da parte dei cacciatori), pratica oggi
vietata praticamente in tutta Europa.
La Torretta del Roccolo
La costruzione
della torretta conferma la passione per la caccia di Vittorio Emanuele II, che
non a caso elesse il Colle del Roccolo, l’area della villa verso il quartiere
dei Parioli, a riserva di caccia, lasciandola di fatto nel suo stato naturale,
quasi selvaggio, come peraltro si presenta ancora oggi.
Nel 1878, dopo la
morte di Vittorio Emanuele II, il figlio Umberto I, che
evidentemente non aveva un particolare attaccamento alla villa, la vendette al
conte Giuseppe Telfener
che, al di là di come il cognome potrebbe suggerire, era nato a Foggia (la
famiglia era originaria della Val Gardena), nonché ricchissimo imprenditore
ferroviario e già amministratore dei beni di casa Savoia.
Giuseppe Telfener,
dopo l’acquisto della proprietà, decise di attribuirle il nome di “Villa Ada”, nome
con il quale oggi la conosciamo, in onore della moglie Ada Hungerford, sposata
pochi mesi prima dell’acquisto.
Giuseppe Telfener e la sua famiglia
Questa vendita,
tra l’altro, suscitò non poche illazioni, considerando che avvenne a un prezzo
incredibilmente basso – 513.000 lire – assolutamente al di sotto di ogni
ragionevole quotazione, come non manca di sottolineare Emilio Richter,
direttore dei lavori voluti da Vittorio Emanuele II, che definisce tale
transazione un “carrozzino” (guadagno illecito o contratto fraudolento), come
peraltro ipotizzato da diverse fonti storiche e in parte confermato anche dal
valore che il tribunale assegnò all’esproprio da parte del Comune di Roma
dell’area di Monte Antenne, dove sarà costruito il forte, a valore di circa
232.000 lire, quindi all’incirca la metà del valore della vendita, ma per
un’area al tempo decisamente di poco valore e pari a circa ¼ del totale.
Giuseppe Telfener,
che non risulta apportò modifiche particolari alla villa, se non forse un
ampliamento di quella che poi diventerà Villa Polissena, vendette poi, nel
1886, l’intero comprensorio alla suocera Eveline Visera, che a sua volta, nel
1889, la vendette alla Banca
Romana che, tra il 1892 e il 1894, era già travolta dal famoso
scandalo.
Fu proprio durante
il periodo nel quale la villa fu di proprietà della Banca Romana che la villa
rischiò seriamente di essere stravolta da un progetto di lottizzazione, ben
evidenziato dal piano regolatore del 1883, che prevedeva la creazione di quello
che al tempo fu chiamato Parco Margherita, una sorta di collegamento tra i
quartieri Parioli e Verbano, quest’ultimo che sarà poi realizzato più tardi, a
partire dal 1925, e successivamente integrato nel quartiere Trieste, che oggi
ben conosciamo.
Estratto dalla pianta del piano regolatore del 1883
Va ricordato,
visto che la questione condizionerà in parte ciò che avvenne dopo, che la
normativa del tempo stabiliva un’importante distinzione tra le zone destinate a
parco pubblico e quelle destinate a parco privato, come al tempo era Villa
Savoia: mentre per le prime era previsto l’esproprio, per le seconde vi era la
possibilità di edificare fino ad 1/20 dell’area complessiva, senza tuttavia
superare l’ulteriore vincolo dei 1500 mq.
Fortunatamente,
quanto previsto dal piano regolatore del 1883, almeno per la quota parte che
avrebbe interessato la villa, non ebbe seguito, tant’è che nelle piante dei
successivi piani regolatori, quello del 1909
voluto dal sindaco Ernesto Nathan e redatto da Edmondo Sanjust di
Teulada, e la sua variante del 1926, la villa appare nuovamente nella sua
conformazione attuale, con la sola eccezione della parte che al tempo si
estendeva nell’area, oggi edificata, tra Via Giacinta Pezzana e parte di Via
Anna Magnani.
Pianta allegata alla variante del 1926 del piano regolatore del 1909
Nel 1903, i Savoia
si ristabiliscono nella villa, anche se Vittorio
Emanuele III perfezionerà il contratto di acquisto solo nel 1904, con
effetto retroattivo. La villa, che riprese il nome di Villa Savoia, fu
acquistata per un importo di 616 mila lire e, nel 1919, i Savoia la eleggeranno
a loro residenza ufficiale, che fino a quel momento era al Quirinale.
Al momento
dell’acquisto, Vittorio Emanuele III fece redigere una pianta, nota come Pianta
della Real Casa, il cui scopo era quello di avere una sorta di censimento di
quanto disponibile al suo interno, tant’è che la pianta, dal punto di vista
topografico, appare decisamente poco precisa.
La pianta della Real Casa del 1904
A Vittorio
Emanuele III, poi, si devono alcuni lavori aggiuntivi, come l’ampliamento della
Palazzina Reale, inclusa la realizzazione del bellissimo giardino all’italiana,
progettato da Filippo d’Assia Kassel, marito di Mafalda di Savoia, e la
costruzione delle cosiddette casette dei giochi per le sue quattro figlie,
anche se Mafalda e Giovanna ne condivideranno una sola. Di queste casette, con
l’eccezione del cosiddetto Chalet Svizzero, che si trova all’interno della
proprietà dell’ambasciata d’Egitto e a suo tempo casa dei giochi di Mafalda e
Giovanna, oggi non restano che pochi ruderi.
Le casette dei giochi, così come si presentano oggi
Il 9 settembre del
1943, giorno seguente a quello dell’armistizio, Vittorio Emanuele III e alcuni
membri della Real Casa, abbandonano la capitale alla volta di Brindisi e poi, nel
1946, Vittorio Emanuele III, nel tentativo di salvare la monarchia abdicando a
favore del figlio, suiautoesilierà in Egitto, dove sembra che, in segno di
gratitudine, consegnò le chiavi di Villa Savoia al re d’Egitto Faruk,
dicendogli che avrebbe potuto disporne a suo piacimento.
Per l’ennesimo
cambiamento, bisogna arrivare alla fine del 1947, quando per una manciata di
giorni si vennero a creare la condizioni che, negli anni successivi, avrebbero
portato a una frammentazione dei beni dei Savoia – e quindi anche di quelli
presenti a Villa Ada –alle relative scelte che gli eredi decisero di fare e ai
rischi che in conseguenza di esse corse la villa.
La Costituzione
Italiana, che entrò ufficialmente in vigore il primo gennaio del 1948,
conteneva, tra le cosiddette “Disposizioni transitorie e finali”, la numero
XIII, che citava, nel terzo capoverso, “I beni, esistenti nel territorio
nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro
discendenti maschi, sono avocati allo Stato. I trasferimenti e le costituzioni
di diritti reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946,
sono nulli”.
Estratto della Costituzione Italiana
Tale disposizione,
quindi, prevedeva che i beni del Re fossero avocati dallo Stato, includendo
anche quelli delle consorti e dei discendenti maschi, cosa che avrebbe di fatto
portato lo Stato ad acquisire l’intero patrimonio dei Savoia. Per uno scherzo del
destino, tuttavia, Vittorio Emanuele III morì il 28 dicembre 1947, cioè tre
giorni prima dell’entrata in vigore della Costituzione, e il titolo di Re, come
da prassi, passò al figlio Umberto.
La disposizione
della Costituzione, pertanto, essendo per così dire centrata sul ruolo più che
sulle persone, ebbe effetto solo sui beni di Umberto, della sua consorte (Maria
Josè del Belgio) e della sua discendenza (Vittorio Emanuele, Maria Pia e Maria
Gabriella), ma non sulle figlie di Vittorio Emanuele III (Mafalda, Maria
Francesca, Giovanna e Iolanda Margherita), che quindi entrarono in possesso
della loro parte di eredità, che includeva gran parte dei beni presenti nella
Villa, inclusa la Palazzina Reale.
La discendenza di Vittorio Emanuele III
A partire da
quella data, furono molti gli eventi che interessarono la villa, a partire da
un primo tentativo di progetto speculativo, che prevedeva la realizzazione di
edifici di pregio, cosa che sarebbe stata possibile anche se la villa era
vincolata a parco privato dal Piano
Regolatore del 1931, vincolo che prevedeva comunque la sua edificabilità
per 1/20 della superficie totale, cioè circa 8 ettari dei 160 complessivi.
Successivamente al
1931, il piano regolatore fu oggetto di alcune variante ed estensioni e finalmente,
nel 1954, lo Stato decise di trasformare il vincolo da parco privato a parco
pubblico, includendo nel vincolo anche l’area adiacente a Via Panama e che oggi
conosciamo come Parco Rabin.
La Gazzetta Ufficiale del 17 maggio 1954
Si arriva poi al
1957, quando lo Stato acquisì dai Savoia i prima 64 ettari della vila, che
furono formalmente aperti al pubblico nel 1958, con il trasferimento della
proprietà al Comune di Roma, ma praticamente solo nel 1960, vista la necessità
di molti lavori per la messa in sicurezza del parco.
L’acquisizione di
parte della villa da parte dello Stato, tuttavia, non mise al sicuro la
restante parte, tant’è che, tra il 1960 e il 1961, le eredi Savoia vendettero
una parte consistente dei rimanenti beni presenti nella parte rimasta privata alla
società “Immobiliare Tirrena” e successivamente, nel 1987, alla società “Villa
Ada 87”.
Le due società,
che facevano capo ai noti costruttori Renato Bocchi e Salvatore Ligresti,
probabilmente acquistarono questi terreni, al tempo non edificabili a causa del
vincolo posto nel 1954, con la speranza di cambiamenti futuri che avrebbero
potuto agevolare scambi di concessioni in altre zone della capitale e, a
sostegno di questa ipotesi, c’è anche il fatto che di tale vendite non ne
furono informate né la Sovrintendenza Nazionale né il Comune di Roma.
Un articolo di “La Repubblica” del 4 marzo 1989
Fortunatamente,
anche questi ulteriori tentativi non andarono a buon fine, anche grazie
all’impegno di diverse associazioni, come Amici di
Villa Ada, Italia Nostra, WWF e Legambiente,
per il coraggio di grandi ambientalisti, a partire da Antonio Cederna, e per la
mobilitazione di tantissimi cittadine e cittadini, tanto che nel 1996 e anche
grazie a nuove leggi e vincoli (legge 396 del 1990 e vincolo di
intrasformabilità del 1995), lo Stato acquistò da Renato Bocchi i rimanenti 74
ettari della villa, lasciando agli eredi Savoia solo 3,5 ettari, che ancora
oggi sono privati e non accessibili, come ad esempio il Casino Pallavicini, il
Casale Tribuna I e Villa Polissena.
Da quest’ultima
acquisizione da parte del Comune, tuttavia, fu esclusa la Palazzina Reale, che nel
1987 Bocchi venderà, per 25 miliardi di lire, alla Repubblica d’Egitto, senza
che né il Comune di Roma né lo Stato italiano esercitarono il previsto diritto
di prelazione. A tale riguardo, l’ipotesi che venne fatta è che ci fosse un
accordo non scritto tra l’Italia e l’Egitto, proprio sulla Palazzina Reale,
quasi fosse questa una sorta di ringraziamento per avere l’Egitto accolto
Vittorio Emanuele III.
In conclusione, una storia lunga e travagliata, che fortunatamente si è però conclusa nel migliore dei modi, con la splendida villa, direi unica nel suo genere, tant’è che più che “villa” andrebbe inquadrata come “foresta urbana”, che oggi è nella disponibilità dei cittadini.
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